giovedì 14 marzo 2013

La malattia americana : il declino di un Impero


La «malattia» americana: il declino di un Impero

di Noam Chomsky

Noam Chomsky è Institute Professor Emeritus al MIT Department of Linguistics and Philosophy. Autore di numerosi successi editoriali nel campo della politica, fra i quali Hopes and Prospects e Making the Future.

Quanto segue è tratto dal libro Power Systems, pubblicato questo mese dalla Metropolitan Books, per i tipi della Henry Holt and Company, LLC. Copyright (c) 2013 di Noam Chomsky e David Barsamian.

Introduzione di TomDispatch

Ammettiamo pure che le Primavere Arabe e quanto ha fatto loro seguito nel Medio Oriente siano il frutto di numerosi contributi; ma come dimenticare l’«unilateralismo» americano? Se volete vedere all’opera la destabilizzazione, non c’è nulla che la incarni quanto un gruppo pesantemente armato che invoca Imperi Globali, dietro la porta di casa vostra. 

Se le Primavere Arabe – dalla Tunisia all’Egitto, dalla Siria alla Libia – hanno rappresentato una serie di rivolte popolari, sono anche delle disfatte. Con due decenni di ritardo, il sistema di controllo delle grandi potenze creato dalla Guerra Fredda, che vedeva nel Medio Oriente un’America dominante ed una Russia in secondo piano, si è finalmente disintegrato. Quel mattatoio che è attualmente la Siria può essere determinato anche dal contributo della Russia al caos mediorientale. L’Egitto invece, con il suo presidente fondamentalista accerchiato, i tifosi del calcio irati per le strade di città confinanti con il Canale di Suez, ed il capo dell’esercito che parla di un possibile crollo dello Stato, deve essere invece considerato come il contributo, ben maggiore e devastante, dato dall’America (insieme ad Israele, l’Egitto era uno dei 3 pilastri del sistema USA nell’area; il terzo, tutt’ora in piedi nella sua gloria fondamentalista e con le sue vaste riserve di petrolio, è l’Arabia Saudita).

Ad ogni modo, quando si assiste agli accadimenti dei giorni nostri, bisogna prima di tutto ringraziare l’unilateralismo americano degli anni ’90, la nostra jihad finanziaria, che fantasticava l’asservimento del pianeta alla potenza finanziaria americana (fantasia terminata malamente, nel 2008). Un decennio dopo arrivava George W. Bush col suo seguito di neocon, che sognavano esattamente la stessa cosa, ma in termini militari. Raccolsero risultati ugualmente disastrosi. Ma se i neoliberal diedero una mano a creare un 1% di quell’oppressione presente in Medio Oriente che ha portato un giovane tunisino a darsi fuoco, i militari visionari di Bush – con l’invasione e l’occupazione dell’Iraq – hanno fatto danni ben peggiori, aprendo una voragine direttamente nel cuore della più importante area petrolifera del pianeta, appiccando il fuoco a quello che amavano chiamare «the arc of instability» – del quale capivano oltretutto ben poco. Poi, nel 2004, ci hanno fatto attraversare quelle le «porte dell’inferno» (per dirla con le parole di Amr Moussa, capo della Lega Araba), pensando fossero invece le porte per un «paradiso imperiale».

Ora Washington, dal Pakistan allo Yemen, dal Mali al Niger, con i droni ed i corpi per le operazioni speciali ed i suoi cyber guerrieri, sta proseguendo ciecamente il processo di destabilizzazione, pur correndo il rischio di minare lo stesso potere americano nell’area. Nell’estratto che segue, tratto dal libro di Noam Chomsky Power Systems, i temi trattai sono: il mondo del dopo-Primavere Arabe e l’assetto del potere USA.

La paranoia dei super-ricchi e super-potenti
Noam Chomsky

[Quanto segue è un adattamento del capitolo «Insurrezioni,» tratto dal libro-intervista rilasciata da Noanm Chomsky a David Barsamian, dal titolo Power Systems: Conversations on Global Democratic Uprisings and the New Challenges to U.S. Empire . Le domande sono di Barsamian, le risposte di Chomsky.]

Barsamian: Gli Stati Uniti hanno oggi il medesimo grado di controllo sulle risorse energetiche mediorientali che avevano una volta?

Chomsky: Le principali nazioni produttrici di petrolio sono tuttora sotto il controllo di dittature sostenute dall’Occidente. I risultati ottenuti dalle Primavere Arabe sono quindi, allo stato attuale, limitati. Ma non insignificanti. Il sistema dittatoriale a sostegno occidentale si sta erodendo. E la cosa va avanti da un po’ di tempo. Se torniamo indietro di 50 anni, le risorse energetiche – la principale preoccupazione dei pianificatori USA – per la maggior parte erano state nazionalizzate. Ed i continui tentativi di ribaltare la cosa non hanno avuto successo.

Consideriamo, ad esempio, l’invasione USA dell’Iraq: a parte qualche ideologo fanatico, era per tutti chiaro che invadevano il Paese non certo per il nostro amore per la democrazia ma perché si tratta del 2° o 3° maggior produttore di petrolio al mondo, per di più proprio nel centro delle più importante area petrolifera al mondo. Ma non lo si dovrebbe dire. Se lo fai sei un cospirazionista.

In Iraq gli americani sono stati pesantemente sconfitti dal nazionalismo iracheno, soprattutto dalla sua resistenza non-violenta. Gli USA possono massacrare gli insorti, ma non possono sconfiggere mezzo milione di persone che scendono per le strade a protestare. Un passo alla volta, gli iracheni sono riusciti a smantellare il sistema di controllo messo in campo dagli occupanti. Alla volta del novembre 2007, era abbastanza chiaro che per l’America sarebbe stato quasi impossibile raggiungere i propri obiettivi. Cosa curiosa, a quel punto gli obbiettivi sono stati espressi chiaramente. Nel novembre 2007 infatti, l’amministrazione di Bush 2 se ne salta fuori con una dichiarazione ufficiale su come intendeva un futuro accordo con gli iracheni. Le due principali condizioni erano: 1) che gli Stati Uniti fossero liberi di condurre operazioni di combattimento al di fuori delle proprie basi militari; 2) che qualsiasi accordo incoraggiasse il flusso di investimenti verso l’Iraq, soprattutto da parte americana. Nel gennaio 2008, Bush lo chiarì in una delle sue dichiarazioni scritte. Un paio di mesi dopo, davanti alla resistenza irachena, gli Stati Uniti dovettero arrendersi. Il controllo americano sull’Iraq ci è svanito sotto il naso.

Il tentativo di reinstallare con la forza qualcosa simile al vecchio sistema di controllo è stato battuto e respinto. In generale, ritengo che la politica estera USA dalla Seconda Guerra Mondiale in poi non sia cambiata, ma sia cambiata la sua capacità di realizzarla. Che è in declino.

Barsamian: In declino a causa della debolezza economica?

In parte perché il mondo sta cambiando, stanno cambiando i centri del potere, ce ne sono di più. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, l’America era indiscutibilmente all’apice della propria potenza. Deteneva la metà della ricchezza mondiale, ognuno dei suoi concorrenti era o seriamente danneggiato o distrutto. Godeva di una posizione di sicurezza inimmaginabile e portava avanti dei piani volti fondamentalmente a governare il mondo. Piani che all’epoca non erano irrealistici.

Barsamian: Era quello che chiamavano «Grande Area»?

Esatto. Proprio dopo la Seconda Guerra Mondiale, George Kennan, capo della squadra di pianificazione politica del Dipartimento di Stato USA – ed altri – definì i dettagli che furono poi messi in pratica. Quello che si sta verificando ora nel Medio Oriente ed in Nord Africa, e per certi versi in Sud America, origina sostanzialmente negli anni ’40. La principale resistenza all’egemonia USA, coronata da successo, si verifica nel 1949.

In quell’anno avvieneun evento particolare che viene indicato come la perdita della Cina. Parole veramente molto interessanti, una frase che non sarà mai messa in dubbio, anzi, si farà un gran parlare – in politica interna – su chi ne fosse stato il responsabile. Divenne un tema molto famigliare per gli americani e, lo ripeto, si tratta di una frase molto interessante anche perché puoi perdere qualcosa solo se la possiedi. Dunque qualcuno riteneva scontato che noi si possedesse la Cina e che muovendo verso l’indipendenza, l’avessimo persa. Poi vennero le preoccupazioni per la perdita dell’America Latina, poi per la perdita del Medio Oriente, poi per la perdita di questo o quel Paese, sempre ripetendosi la premessa che noi si possedesse il mondo e che qualsiasi cosa fosse capace di indebolire il nostro controllo, fosse un perdita che dovevamo e dobbiamo prodigarci a recuperare.

Oggi, se leggete la stampa che si occupa di politica estera o seguite i dibattiti dei Repubblicani – per quanto siano una farsa – vedrete che ci si domanda: «Cosa dobbiamo fare per prevenire ulteriori perdite?».

È comunque un fatto che la nostra capacità di mantenere il controllo è decisamente calata. Nel 1970 il mondo, a livello di economia, era tripolare: un centro industriale nord-americano negli USA, un centro industriale europeo di base in Germania (e più o meno delle stesse dimensioni ), ed un centro industriale dell’Asia dell’est, di base in Giappone. Che fu poi l’area del mondo dalla crescita più dinamica.

L’assetto dell’economia mondiale è molto cambiato da allora. Portare avanti la nostra politica è diventato più difficile, ma incredibilmente le direttive sottostanti non sono cambiate più di tanto.

Pensiamo alla dottrina Clinton: gli Stati Uniti hanno il diritto di ricorrere unilateralmente alla forza al fine di inibire agli altri l’accesso a mercati chiave, a forniture di energia, a risorse strategiche. Si va ben oltre qualsiasi cosa detta da George W. Bush. Ma è stato detto tranquillamente, non in modo arrogante od offensivo, così non ha sollevato nessun polverone. È una dichiarazione che vale ancora oggi E fa parte della nostra cultura intellettuale.

Proprio dopo l’assassinio di Osama bin Laden, nel bel mezzo delle congratulazioni e degli applausi, ci furono alcune, poche, critiche sulla legalità dell’azione condotta. Centinaia di anni fa esisteva un qualcosa che solevano chiamare presunzione di innocenza. Una persona sospetta rimane tale fino a colpevolezza dimostrata. Dovrebbe avere un processo. È parte del nucleo fondante della legge in America. Risale fino ai tempi della Magna Carta. Così si alzarono un paio di voci a dire che non dovevamo buttare nel cesso intere fondamenta della legge anglo-sassone. Ne partirono reazioni rabbiose ed infuriate, le più interessanti delle quali erano, come al solito, quelle provenienti dall’ala liberal di sinistra dell’arco politico.

Matthew Yglesias, noto e rispettato commentatore della sinistra liberal, scrisse un articolo nel quale ridicolizzava le opinioni che mettevano in dubbio la legalità dell’operato. E ne chiarì il motivo: «Una delle principali funzioni dell’ordine istituzionale internazionale è proprio quella di legittimare l’uso da parte dell’Occidente della forza militare, anche per portare la morte». Naturalmente non si riferiva alla Norvegia, ma agli USA. Dunque, il sistema internazionale avrebbe come principio fondante che gli USA possono usare la forza a proprio piacimento... Dire che gli Stati Uniti stanno violando il diritto internazionale o cose simili, è da ridicoli, ingenui e completi imbecilli. Per la cronaca, Yglesias prendeva di mira proprio me, ed io sono felice di dichiararmi colpevole. Io credo veramente che il diritto internazionale e la Magna Carta meritino una certa attenzione…

Ho citato questo fatto per illustrare che nella cultura intellettuale, anche in quel settore indicato come liberal di sinistra, il nucleo dei principi non è cambiato tanto. È la capacità di metterli in pratica che è calata vistosamente ed è per questo che c’è tutto questo parlare del declino dell’America. Prendiamo in esame il numero di fine anno di Foreign Affairs, mezzo stampa fondamentale per l’apparato governativo. Nella copertina ci si domanda a grandi lettere ed in grassetto: «L’America è finita?». Questa è la solita lamentela di quelli che credono di dover avere tutto. Se tu credi che dovresti avere tutto, è una tragedia, qualsiasi cosa perdi. Ed il tuo mondo crolla. L’America è finita? Molto tempo fa abbiamo perso la Cina, poi abbiamo perso il Sudest asiatico, poi abbiamo perso l’America del sud. Forse perderemo il Medio Oriente e le nazioni nordafricane. L’America è finita? Questa è un tipo di paranoia, la paranoia dei super-ricchi e dei super-potenti: se non possiedi tutto, è una sciagura.

Barsamian: Il New York Times descrive il «dilemma politico nella Primavera Araba: far quadrare fra loro elementi che generano contrasto negli americani, quali il sostegno al cambiamento democratico, il desiderio di stabilità e la volontà di guerra di islamisti che sono diventati una potente forza politica». Dunque il Times indica 3 obbiettivi politici. Che ne pensi?

Due sono interessanti. Gli Stati Uniti sono a favore della stabilità, ma forse andrebbe ricordato che cosa intendano per stabilità: attenersi agli ordini USA. Dunque, per esempio, una delle grandi accuse mosse all’Iran – la grande minaccia in politica estera – è che l’Iran destabilizzi Iraq ed Afghanistan. Ma come? Cercando di espandere la propria influenza su nazioni limitrofe. D’altra parte, noi stabilizziamo le nazioni invadendole e distruggendole.

In alcune occasioni ho illustrato uno dei miei esempi preferiti a riguardo, esempio che proviene da un ben noto analista liberal di politica estera – James Chace – ex editore proprio di Foreign Affairs. Scrivendo della deposizione del regime di Salvador Allende e della imposizione della dittatura di Augusto Pinochet nel 1973, Chace disse che dovevamo destabilizzare il Cile nell’interesse della stabilità. La cosa non fu percepita come una contraddizione. Per aumentare la stabilità, dovevamo distruggere il sistema parlamentare esistente, le cose significano proprio questo. È in questa prospettiva tecnica che noi siamo favorevoli alla stabilità.

Le preoccupazioni relative all’islam politicizzato, non sono diverse dalle preoccupazioni per qualsiasi evoluzione che non dipenda da noi. Devi preoccuparti di qualsia che sfugge al tuo controllo perché potrebbe minacciarti. La cosa è un po’ ironica, perché tradizionalmente USA ed Inghilterra hanno sostenuto il fondamentalismo radicale islamico per lungo tempo e con forza – ma non l’islamismo politicizzato – considerandolo una forza utile per bloccare il nazionalismo secolarista, che rappresentava il vero il problema.

A questo riguardo, l’Arabia Saudita ad esempio, è lo Stato più fondamentalista al mondo, uno Stato islamico radicale. Ha un impegno missionario: diffondere l’islamismo radicale e finanzia il terrorismo nel Pakistan. Eppure rimane un’importante baluardo della politica USA ed UK ed è stata finanziata abbondantemente contro la minaccia del nazionalismo secolare di Gamal Abdel Nasser in Egitto e di Abd al-Karim Qasim in Iraq (fra gli altri). Ma gli USA non amano l’islam politico perché potrebbe diventare indipendente. 

Il primo dei 3 punti, il nostro desiderio struggente di democrazia, è sullo stesso piano di Peppe Stalin che parla dell’amore russo per la libertà, per la democrazia e le libertà del mondo intero. È quel tipo di dichiarazione che quando la senti dalla bocca di prelati od alti funzionari iraniani ti fa scoppiare a ridere, ma che ti fa annuire educatamente – provando forse anche un po’ di soggezione – quando viene pronunciata da una controparte occidentale.

Se presti attenzione agli effetti, questo desiderio struggente di democrazia è uno scherzo di cattivo gusto. La cosa è ammessa anche dai più quotati studiosi, anche se non lo dicono in questi termini. Uno dei principali studiosi della cosiddetta promozione della democrazia è Thomas Carothers, molto quotato e decisamente conservatore – più un neo-reaganiano che un acceso liberal.

Ha lavorato al Dipartimento di Stato al tempo di Reagan ed ha scritto parecchi testi sulla promozione della democrazia, argomento che prende molto sul serio. Lui sostiene che, in effetti, è un ideale radicato nel profondo degli americani, ma che porta con sé una storia divertente, legata al fatto che ogni amministrazione americana è schizofrenica a riguardo: ogni amministrazione appoggia la democrazia solo se è conforme ai suoi interessi strategici ed economici.

Carothers osserva che si tratta di una strana patologia, come se gli Stati Uniti avessero necessità di una cura psichiatrica o qualcosa simile. Naturalmente, c’è anche un’altra interpretazione, ma è una spiegazione che non ti viene in mente se sei un intellettuale ben-ammaestrato, intento a fare il tuo compitino.

Barsamian: Pochi mesi dopo il rovesciamento, l’ex Presidente egiziano Hosni Mubarak si è ritrovato a doversi difendere dall’accusa di aver commesso dei crimini. È ipotizzabile che i comandanti americani si ritrovino mai ad essere chiamati a render conto dei propri crimini in Iraq, come altrove? Succederà mai?

Fondamentalmente ricorre nuovamente il principio di Yglesias: le basi profonde dell’ordine internazionale risiedono nel fatto che gli Stati Uniti hanno il diritto di usare la forza a proprio piacimento. Stando così le cose, come possono essere accusati?

Barsamian: E nessun altro detiene questo diritto all’uso della forza…

Ovviamente nessuno. Beh, forse i nostri clienti. Se Israele invade il Libano, uccide migliaia di Libanesi e distrugge metà del Paese... beh, è tutto a posto. Riporto in aneddoto interessante a riguardo. Barack Obama, prima di diventare Presidente, era un senatore. Da senatore non ha fatto molto, ma ha fatto un paio di cose le ha fatte e di una di esse andava particolarmente orgoglioso. Infatti, dando un’occhiata al suo sito web prima delle primarie, avresti visto in bell’evidenza il fatto che – durante l’invasione israeliana del Libano nel 2006 – Obama era stato co-presentatore di una risoluzione del senato USA con la quale si chiedeva che gli Stati Uniti non facessero nulla per impedire le azioni militari di Israele, fino a che Israele non avesse conseguito i propri obbiettivi. Censurava anche Iran e Siria perché appoggiavano l’opposizione alla distruzione israeliana del Libano del sud – per la quinta volta in 25 anni, tra l’altro. Dunque è un diritto ereditabile. Ed anche altri clienti sono autorizzati.

Ma il titolare di questo diritto è Washington. Ecco cosa vuol dire essere proprietari del mondo. È come l’aria che respiriamo, non puoi metterla in discussione. È possibile considerarlo alla stregua di un intreccio religioso, difficilissimo da districare, perché in sostanza lo scopo dell’America è considerato trascendente: portare libertà e giustizia al resto del mondo. E come ha brillantemente scritto Hans Morgenthau – uno dei pochi scienziati della politica e specialista di affari internazionali che abbia mai criticato la Guerra nel Vietnam sul piano morale e non su quello tattico-politico – nel suo libro Lo scopo della politica americana:

«Criticare il nostro scopo trascendente è come cadere nell’errore dell’ateismo, che nega la validità della religione per motivi analoghi».
Inoltre, se qualcuno mette in discussione questa chiamata dell’America, scatena spesso una reazione isterica, tirandosi addosso l’accusa di anti-americanismo.

Concetti interessanti, che non esistono nelle società democratiche ma solo in quelle totalitarie; o qui da noi, perché fanno parte del nostro tessuto più profondo e fondante.

1 commento:

  1. Ciao Olindo
    Come stai?
    Vedo che anche tu ti cimenti con i blog.
    Vieni a trovarmi qui

    http://crearesviluppo.blogspot.it/

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