martedì 30 aprile 2013

“Cala lo spread. Fiducia nel nostro Paese? No, merito di Stati Uniti e Giappone” - Il Fatto Quotidiano


ANALISI DELL'ECONOMISTA LORETTA NAPOLEONI. Le nostre obbligazioni fanno gola per due motivi: i rendimenti sono alti rispetto a quelli del resto dei paesi occidentali e la caduta dei tassi d’interesse in atto ne fa crescere il valore


Se gioca bene le sue carte, il nuovo governo italiano potrebbe, almeno nel breve periodo, trarre vantaggio dalle mutate condizioni del mercato delle obbligazioni di stato, e cioè la corsa all’acquisto del debito della periferia di Eurolandia. Ci troviamo di fronte ad uno di quegli spettacolari colpi di scena che l’alta finanza sferra quando uno meno se lo aspetta? Pare proprio di sì, ma chi pensa che dietro ci sia l’ennesima dietrologia di organizzazioni come il Bilderberg sarà deluso: ciò che sta avvenendo è frutto di politiche economiche e monetarie rivoluzionarie perseguite principalmente da due paesi: gli Stati Uniti ed il Giappone. Politiche che nell’era della globalizzazione hanno un raggio di gettata che va ben oltre i confini nazionali.
Chiediamoci perché lo spread scende in tutt’Europa, perché all’apice della nostra crisi politica delle scorse settimane i tassi ai quali l’Italia si indebitava erano quasi la metà di quelli dell’autunno del 2011. La risposta più frequente è che c’è fiducia nel nostro paese, ma è la risposta sbagliata. Le nostre obbligazioni fanno gola per due motivi: i rendimenti sono alti rispetto a quelli del resto dei paesi occidentali e la caduta dei tassi d’interesse in atto ne fa crescere il valore. Vale la pena spiegare questi due punti.
Dal 2010 il rendimento delle obbligazioni dei paesi emergenti e di quelli cosiddetti di frontiera – a ridosso dei primi ma ancora in fase di decollo, come il Ruanda – sono scesi dall’11 al 6 per cento, durante la crisi del credito del 2009 questi erano arrivati al 20 per cento. Oggi giorno soltanto il debito pubblico pachistano, venezuelano ed argentino, di nazioni in default insomma, offre rendimenti al di sopra del 10 per cento. Il motivo è la politica monetaria espansiva perseguita dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e da poche settimane dal Giappone. L’ingresso del Giappone, poi, tra i tipografi del danaro, nazioni che stampano moneta per far fronte alla deflazione, ha causato un’ulteriore e più profonda ondata di tagli nei tassi di rendimento. Ondata che perdurerà per almeno due anni, questa la durata ufficiale di questa politica.
Più il denaro rende poco a livello globale più la caccia ai tassi più elevati diventa difficile, più i tassi scendono più sale il valore delle obbligazioni già in portafoglio. Ecco spiegata la spirale di guadagno sui titoli. L’appetito per il debito della periferia è alimentato dalla caduta mondiale dei rendimenti che ha ridimensionato il rischio della periferia. Oggigiorno le obbligazioni della Costa Rica o del Ruanda rendono meno di quelle della Grecia, che fa parte dell’Unione Europea. Di fronte a queste anomalie l’investitore alla ricerca di alti rendimenti deve necessariamente riassestare il rischio Grecia.
E veniamo ai paesi della periferia di Eurolandia dove i tassi sono di pochi punti percentuali al di sotto di quelli di nazioni africane. Dal 2010 ad oggi gran parte del debito nazionale è stato riacquistato dai singoli paesi. Si tratta di un fenomeno che sta trasformando questi paesi nei replicanti del Giappone dove quasi il 100 per cento del debito nazionale è detenuto da cittadini ed istituzioni nazionali. Ciò implica che il pericolo di default è minino dal momento che lo stato è allo stesso tempo debitore e creditore. Ma c’è un altro elemento importante da prendere in considerazione: l’alta e crescente percentuale di fallimenti nell’economia reale.
Dall’autunno del 2011 la Banca centrale europea ha immesso nel sistema bancario circa 2mila miliardi di euro, a questo va aggiunto l’aumento dei depositi in euro, 44 miliardi a marzo in Italia, Spagna e Francia. Dove finiscono tutti questi soldi? La risposta è semplice: nel mercato obbligazionario perché è l’investimento più redditizio e sicuro. L’andamento dei prestiti non onorati o restituiti in Italia ce lo conferma. Dal 2008 ad oggi la percentuale di questi sul totale dei prestiti è passata dal 2 al 6 per cento.
Questi dati ci dicono che nei prossimi mesi non dovremmo affrontare crisi finanziarie come quella del 2011, abbiamo insomma un attimo di respiro. Ma se in questo intervallo non iniziamo a rimettere in ordine la nostra economia facendola ripartire, dietro l’angolo ci aspetta un destino simile a quello del Giappone: deflazione ventennale o forse qualcosa di peggio. Come ha scritto un blogger finanziario londinese: la grande abbuffata del mercato dei titoli della periferia è ricominciata, comprate, comprate, comprate fino a quando inizieranno i disordini in strada.


domenica 28 aprile 2013

La banca esagera con gli interessi: ex imprenditore la fa pignorare


VENEZIA 28 Aprile 2013 - Quando è la banca a essere pignorata. Nonsuccede spesso, visto che quasi sempre è l’istituto bancario ad avvalersi dello strumento coattivo per recuperare i crediti di clienti insolventi. Stavolta la situazione è letteralmente a parti inverse. È un correntista, o meglio un ex correntista, il titolare di un’impresa edile di Mestre, che – forte di una sentenza del Tribunale di Venezia – si è presentato nella filiale di via Riviera XX Settembre della Deutsche Bank con l’ufficiale giudiziario, ottenendo il pagamento di 96mila euro.
«Non è stato facile - commenta l’avvocato Daniela Ajese, legale dell’imprenditore – ma alla fine i funzionari dell’agenzia ci hanno consegnato il sospirato assegno circolare. Si tratta della somma fissata dal giudice che ha condannato la Deutsche Bank alla restituzione degli interessi ultralegali, delle commissioni di massimo scoperto e di altre spese non dovute, addebitate al mio cliente nel corso del rapporto che è stato dichiarato illegittimo».
Tutto comincia con un crac. Appunto quello di un’azienda attiva sia in terraferma che in centro storico nel settore delle costruzioni che al massimo del suo sviluppo ha dato lavoro a una decina di dipendenti. Le prime difficoltà arrivano quando il comparto inizia a soffrire all’inizio del Duemila: gli immobili non si vendono, il costo del denaro che lievita e la progressiva difficoltà di accedere al credito. Poi la chiusura della ditta, dovuta in sostanza alla sovraesposizione con il sistema bancario che esige il rientro dei debiti.
«Debiti? Alla fine – sottolinea l’avvocato Ajese, da anni attiva nel settore bancario a tutela delle aziende – analizzando la gestione dei conti correnti in essere con la medesima società abbiamo recuperato nei confronti di più istituti di credito complessivamente più di un milione di euro. Per quanto riguarda la Deutsche Bank – conclude Ajese – gli addebiti illeggitimi sono stati effettuati nel periodo compreso fra il 1990 e il 1996. Per fortuna la Corte di Cassazione ha definitivamente chiarito (l’ultima sentenza è del 2010) che la prescrizione decennale per la richiesta di restituzione degli importi dovuti inizia a decorrere a partire dalla data di estinzione del conto corrente ed è per questo motivo che abbiamo potuto rivalerci sulla banca, ottenendone la condanna a distanza di così tanto tempo».
di Monica Andolfatto su: Il Gazzettino

sabato 6 aprile 2013

Se i nostri politici ascoltassero un poco. O per ignoranza o per sordità non ce la fanno.


Questo breve articolo è stato scritto sul New York Times il giorno 4 aprile da un povero economistello da due soldi che si chiama Paul Krugman. 
Per queste sue strane teorie, a questo poveretto è stato assegnato il premio Nobel. 
Come mai i politici e i professori non lo ascoltano ?
Sono sordi o sono ignoranti? 
Alla fine dell'articolo Krugman esorta la politica a fare il proprio dovere. 
Fare l'interesse dei milioni di disoccupati e non quello dei banchieri e dei finanzieri.
A difendere l'economia reale e non la finanza creativa.
Se non facciamo tornare al centro di tutto il lavoro e le persone siamo destinati al baratro senza nessuna altra soluzione alternativa.
Ai posteri la sentenza, intanto leggiamo l'articolo di Paul Krugman sperando che lo legga anche qualche politico che improvvisamente decide di fare il proprio dovere. 


THE URGE TO PURGE
Paul Krugman


Durante la Grande Depressione, molte persone influenti hanno sostenuto che il governo non doveva neanche tentare di limitare i danni.
Secondo Herbert Hoover(31° presidente degli Stati Uniti dal 1929 al 1933), Andrew Mellon, il suo segretario al Tesoro, lo esortò a "Liquidare lavoro, liquidare le scorte, liquidare gli agricoltori. ... Sarà come spurgare il marcio fuori dal sistema.
"Non cercate di accelerare la ripresa, ha avvertito il famoso economista Joseph Schumpeter, perché lo stimolo artificiale annulla il lavoro delle fatto dalle depressioni. "

Come molti economisti, ho usato citare questi luminari del passato con un certo compiacimento. Dopo tutto, la macroeconomia moderna aveva mostrato che avevano torto, e noi non avremmo dovuto ripetere gli errori del 1930, vero?

Come eravamo ingenui. Si scopre la voglia di effetto-spurgo, la voglia di vedere la depressione come una punizione necessaria e in qualche modo anche auspicabile per i peccati passati, mentre bisogna inveire contro ogni tentativo di mitigare la sofferenza. Questo sentimento è più forte che mai.

Infatti, le teorie di Mellon in questi giorni sono ovunque.

Accendete CNBC o leggere un articolo su un giornale importante, e non si vedrà nessuno sostenere che il governo federale e la Federal Reserve stanno facendo troppo poco per combattere la disoccupazione di massa.
Invece, è molto più probabile incontrare un presunto esperto che inveisce sui mali del deficit di bilancio e sulla creazione di moneta, e denuncia l'economia keynesiana, come la radice di ogni male.

Ora, il fatto è che questi hanno sbagliato su tutto, in ogni fase della crisi, mentre i keynesiani sono stati accantonati.
Ricordate come i deficit federali avrebbero dovuto causare impennata dei tassi di interesse?
Poco male: Dopo quattro anni di tali avvertimenti, i tassi restano vicino a minimi storici proprio come avevano previsto i keynesiani.
Ricordate come stampare denaro stava per causare un'inflazione galoppante? Da quando è iniziata la recessione, la Fed ha più che triplicato le dimensioni del suo bilancio, ma l'inflazione è stata in media meno del 2 per cento.

Ma i seguaci di Mellon continuano ad arrivare. L'ultimo esempio è David Stockman, primo direttore di bilancio del presidente Ronald Reagan, che ha appena pubblicato un mammut dal titolo "The Great deformation."

Il suo libro non ha molto di nuovo da dire.
Anche se la volontà del signor Stockman di criticare alcuni repubblicani e lodare alcuni democratici gli ha fatto guadagnare una reputazione da iconoclasta, la sua analisi è praticamente liquidatorismo di serie.

Siamo stati condannati al disastro, egli afferma, da quando la Federal Reserve ci ha portato fuori dal Gold Standard e ha introdotto l'assicurazione dei depositi. Tutto ciò in quanto c'è stata una serie di "spese folli" (la sua parola preferita): spese folli di consumo, spese folli di debito, e soprattutto le spese folli di stampa di denaro.
Se il disastro è stato in qualche modo evitato per 70 e più anni, è stato grazie a una serie di incidenti fortunati.

Quindi tratta più o meno le solite cose.
In particolare, come molti nel suo campo, il signor Stockman fraintende il significato di aumento del debito.
Sì, il debito totale per l'economia degli Stati Uniti, combinato pubblico e privato, è aumentato drammaticamente in rapporto al PIL Ma questo non significa che noi come nazione abbiamo vissuto molto al di là dei nostri mezzi, e dobbiamo stringere drasticamente le nostre cinture.
Mentre abbiamo accumulato un debito estero significativo (anche se non così grande come molti immaginano), l'aumento del debito è rappresentato prevalentemente da americani che prendono in prestito da altri americani, che non rendono la nazione nel suo insieme più povera e non significa che dobbiamo nel complesso spendere di meno.
In realtà, il problema più grande creato da tutto questo debito è che si sta tenendo l'economia depressa, ed è questo che ci porta a spendere poco. Abbiamoi debitori costretti a tagliare le spese, mentre i creditori non vedono alcuna ragione per spendere di più.

Allora cosa dobbiamo fare? Con tutti i mezzi, dobbiamo cercare di ripristinare il tipo di regolamentazione finanziaria efficace che, negli anni prima della rivoluzione Reagan, ha contribuito a scoraggiare un eccessivo indebitamento.

Ma questo è prevenire la prossima crisi. Per affrontare la crisi che è già qui, abbiamo bisogno di stimoli monetari e fiscali, per indurre coloro che non sono troppo profondamente indebitati a spendere di più, mentre i debitori forti riducono il debito.

Ma tale ricetta è un anatema per i Mellonites, che erroneamente vedono solo le stesse politiche che ci hanno portato in questa trappola.
E questo, a sua volta, ti dice perché il liquidatorismo è una dottrina così distruttiva: ruotando i nostri problemi in un morality play del peccato e della punizione, ci aiuta a condannare a una crisi più profonda e più a lungo.

La cattiva notizia è che il peccato vende. Anche se le teorie di Mellon hanno sbagliato tutto, la nozione di macroeconomia come morality play ha un fascino viscerale che è difficile da combattere.

Mellon ha sbagliato nel 1930, e il suo avatar ha sbagliato oggi.

La disoccupazione, non l'eccessiva stampa di denaro, è ciò che ci affligge oggi e la politica dovrebbe fare di più, non di meno.

martedì 2 aprile 2013

nocensura.com: Monti prima di abbandonare palazzo Chigi fa un reg...

Prima di abbandonare Palazzo Chigi, Monti e il suo governo tecnico fanno l'ultimo regalo a banche e assicurazioni. Infatti giovedì 28 marzo e' stato preparato, pronto per essere approvato, il decreto taglia risarcimenti per le vittime di incidenti stradali e della Malasanità con una tabella medico-legale e una di valutazione monetaria per le lesioni da 10 a 100 che riduce gli importi risarcitori di circa il 60%. Questa tabella non è quella approvata dai vari organismi scientifici nel corso degli anni perché ha subito un coefficiente di abbattimento assolutamente non previsto. E ciò accade proprio mentre il Tribunale di Milano ha appena pubblicato quella nuova con gli incrementi per la svalutazione.
Tutti i cittadini e le vittime della strada fanno appello al Presidente Napolitano perché da ultimo baluardo degli Italiani non firmi questo decreto che mortificherebbe ancora di più tutti coloro che hanno già tanto sofferto.

"Questo è un altro regalo dell'ex presidente Monti ai poteri forti" - lancia l'allarme l'avv. Angelo Pisani, presidente di NOI Consumatori Anti-Equitalia. E continua: "Il governo Monti ha più volte tradito gli Italiani, ora vuole svendere la salute umana e i diritti delle persone che hanno subito grandi sofferenze. L'associazione NOI Consumatori si batterà per difendere i danneggiati e le vittime della strada e della Malasanità, ma sarebbe fondamentale una mobilitazione generale di tutte le associazioni a tutela dei cittadini."

 Di Angelo Pisani - noiconsumatori.it

Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione.


di Sergio Di Cori Modigliani

E’ il nostro fiore all’occhiello.
E’ forse l’unica grande azienda italiana, leader planetario nel suo specifico settore merceologico, ad essere virtuosa, solida, in espansione. Presente in 132 nazioni, ha 75.560 dipendenti, di cui 62.000 addetti che producono nel territorio della repubblica italiana. Non ha neppure un cassintegrato e non ne prevede. Il suo titolo quotato in borsa, soltanto nel 2012, è schizzato in avanti del 32%: unico titolo in positivo. Il suo fatturato si aggira intorno ai 7 miliardi di euro, superiore di un +13,1% rispetto all’anno precedente.
L’azienda è nata nel 1961, ad Agordo, in provincia di Belluno, dentro un garage.
La storia di questa fabbrica e del suo ideatore e fondatore è studiata oggi nel corso di management industriale all’università di Harvard come esempio pratico e vincente “del miracolo economico italiano che coniuga impresa, creatività, rischio, con una ricerca accurata del design, del gusto e del dettaglio che nasce dall’applicazione della tradizione artigiana locale”.
L’azienda non ha mai visto uno sciopero, né uno scorporo, né proteste.
Si chiama LUXOTTICA. Produce lenti per occhiali e li vende in tutto il mondo. Tra i suoi clienti più famosi la polizia stradale della California (i celeberrimi CHIPS) l’esercito cinese, tutta la linea occhiali di Christian Dior e Yves Saint Laurent. Produce in Italia e vende in Cina.
Il suo proprietario e fondatore, Leonardo Del Vecchio, nato nel 1935 a Milano, è poco noto alla massa degli italiani. Ma il suo nome è un mito in Usa, Germania, Gran Bretagna, Cina.
La sua frase più recente? “Non investiamo neppure un euro nella finanza, perché noi sappiamo come produrre, come inventare mercato, avendo come fine la ricchezza collettiva della comunità, altrimenti questo lavoro non avrebbe senso”.
Alieno da conventicole, complotti, schieramenti politici di parte, corteggiato da sempre sia dalla destra che dalla sinistra (“no grazie, non mi piacciono i balli a corte” ha risposto all’ultima preghiera-convocazione alle elezioni politiche del 2008 sia al PD che al PDL che alla Lega Nord) è uscito allo scoperto per la prima volta nella sua esistenza, violando il suo codice personale fatto di discrezione, poche chiacchiere e molto lavoro intinto di creatività.
“Basta con i manager mitomani finanzieri” ha detto al giornalista  Daniele Manca in una esplosiva intervista pubblicata sul corriere della sera qualche giorno fa, non a caso, in Italia, volutamente passata sotto silenzio e rimasta priva del dibattito che avrebbe meritato.
Ma non all’estero.
Soprattutto in Usa e in Gran Bretagna dove la situazione italiana è seguita con estrema attenzione, perché Del Vecchio sta spiegando come funziona l’Italia, anzi….come non funziona l’Italia e perché, allertando il business internazionale che conta sulla situazione nel nostro paese. Vox clamantis in deserto, la sua opinione è fondamentale, soprattutto in questo momento, e per una ragione ben specifica: perché Del Vecchio è sceso in campo (non ama e non ha bisogno di visibilità) andando all’attacco del cuore della finanza italiana.
Qualche notizia biografica su di lui tanto per capire che tipo sia.
All’età di sette anni rimane orfano, insieme a quattro fratelli. Provenendo da famiglia disagiata, i fratelli vengono dati in affidamento. Lui, invece, finisce nei Martinitt, l’orfanotrofio milanese per poveri. All’età di 15 anni, con il diploma di scuola media, esce e va a lavorare come garzone di bottega in una fabbrica che stampa marchi di metallo. I proprietari del negozio lo aiutano e lo spingono a iscriversi ai corsi serali all’Accademia di Brera per studiare design e soprattutto incisione. A ventidue anni si trasferisce nel trentino dove trova lavoro come operaio in una fabbrica di incisioni metalliche e impara il mestiere. Dopo sei anni, all’età di 27 anni, riesce a ottenere gratis un enorme garage e capannone abbandonato nel comune di Belluno, di proprietà della regione, con la consegna di avviare un’attività per assumere personale proveniente dalle comunità montane più disagiate. E inizia, insieme a due collaboratori, a tirar su l’impresa: fabbricare occhiali all’italiana, con montature originali artigianali d’eccellenza, incise a mano, e lenti molate da lui personalmente. Vent’anni dopo è una florida azienda e va all’attacco del mercato statunitense che gli mette potenti sbarramenti. Li supera tutti. Stende la concorrenza più competitiva che si arrende. Acquista i tre più importanti marchi Usa e diventa la più potente multinazionale al mondo nel settore della produzione di occhiali. Dal 2002 è leader incontrastato.
Oltre ad essere il maggior azionista di Luxottica è un importantissimo grande azionista di Unicredit e soprattutto le assicurazioni Generali. Data la sua posizione è sempre stato nel consiglio direttivo del colosso assicurativo. Tre giorni fa (ed ecco perché ne parliamo e lui ha deciso di parlarne al pubblico) si è dimesso, se n’è andato sbattendo via la porta, con un clamoroso atto d’accusa: “la mia è una protesta contro il management imprenditoriale di questo paese, composto da individui superficiali che non sanno nulla del loro lavoro, sono semplici contabili mitòmani. Mi sento davvero a disagio. Il vero problema è che quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri comprando le più disparate partecipazioni senza comunicare nulla ai propri azionisti, non si fa un buon servizio né per l’azienda, né per gli azionisti, né per il paese. Mentre questo è un periodo in cui ciascuno dovrebbe fare il proprio dovere, ovverossia: fare ciò che sa fare. E chi crede che lo spread sia domato, si sbaglia di grosso. Basta un nulla per farlo schizzare a 600 e mandare la nazione a picco. E’ ciò che stanno facendo gli imprenditori italiani e le banche e i colossi assicurativi perché insistono nell’investire nella finanza: il rischio è alto ed estremo”.
La considero una voce fondamentale da ascoltare, quella di Leonardo Del Vecchio.
Sulla quale riflettere. Perché l’Italia ha bisogno di un incontro tra imprenditoria efficace, efficiente e virtuosa da una parte e mondo del lavoro dall’altro, uscendo fuori dalle consuete griglie di protesta che finiscono per coagulare dissenso e indignazione uscendo fuori dalla immediata necessità di emergenza di costruire alleanze solide tra le due parti sociali.
Del Vecchio è sceso in campo.
Nel modo giusto.
Non scende in campo appoggiando un certo partito, né movimento. Non ama Monti e non lo odia. Non vuole entrare in politica come soggetto. Vuole dare uno scossone al mondo dell’imprenditoria. La sua voce è da diffondere.
Perché il suo curriculum professionale ed esistenziale è il suo biglietto da visita.
“Il problema dell’Italia nasce quando si vuole fare finanza. Quando, le aziende, usando i soldi degli investitori e soprattutto dei risparmiatori, comprano un pezzettino di Telecom, e un pezzetto di una banca russa; si mettono a repentaglio –come nel caso delle assicurazioni Generali-  ben due miliardi di euro alleandosi con il finanziere ceko Kellner e ci si impegna con la Citylife in una percentuale che nessun immobiliarista al mondo avrebbe mai accettato, com’è avvenuto nel 2009 quando hanno investito 800 milioni in fondi di investimento greci. Miliardi di euro sono andati in fumo. Erano soldi di imprenditori italiani che avevano investito con l’idea di poter poi spostare i profitti nel mercato del lavoro per tirar su imprese e creare lavoro. I manager responsabili di questi atti perdenti sono stati tutti promossi e saldati con stipendi multi milionari. Non si va da nessuna parte, così”.
E’ impietoso, Del Vecchio. Picchia duro. E se lo può permettere. E parlando al canale televisivo di Bloomberg, quando un giornalista americano gli ha fatto la domanda da 1 milione di dollari “Lei come si pone rispetto all’articolo 18 che in Italia è il punto dolente nello scontro tra imprenditori e lavoratori?” ne è uscito in maniera impeccabile. Ha risposto: “Un dibattito inutile, fuorviante. Personalmente, ripeto “personalmente” non mi riguarda. Su 65.000 lavoratori italiani che pago ogni mese, non c’è nessuno, neppure uno che rischia il licenziamento. Che ci sia l’art.18 così com’è, che venga abolito, modificato, cambiato, per me è irrilevante. La mia azienda funziona e ogni imprenditore -parlo di quelli veri- ha come sogno autentico quello di assumere e non di licenziare. Il paese si rialza assumendo non licenziando. E la colpa è delle banche”.
E’ la prima volta che un grande imprenditore, un grande finanziere, un grande industriale, attacca frontalmente le banche italiane. E qui non si tratta dei bloggers che odiano Goldman Sachs o dei consueti slogan contro la finanza internazionale. Perché Del Vecchio attacca la gestione inconcludente delle banche, affidata a “personale e personalità poco affidabili”. Racconta la parabola di Alessandro Profumo che lui presenta come una favola con un brutto finale, senza fare pettegolezzi o scandali.
“Finchè Unicredit e le Generali facevano le banche andava bene. Poi si sono buttati nella finanza e hanno perso la testa. Ho visto sotto i miei occhi trasformarsi Profumo. Partecipazioni, fusioni, investimenti a pioggia inutili e perdenti, con l’unico fine di agguantare soldi veloci e facili invece che produrre impresa con l’unico risultato di ottenere perdite colossali e bonus di uscita per diverse decine di milioni di euro. Le banche italiane hanno perso la testa. Ricordo il 1981. La mia azienda, dopo 20 anni, era diventata forte e solida. Avevo capito che la globalizzazione era alle porte e bisognava andare all’attacco del mercato americano. Ma non si cerca di entrare in Usa se non si è solidi finanziariamente. Abbiamo fatto le nostre ricerche e analisi e alla fine abbiamo calcolato che avevamo bisogno di una certa cifra molto alta. Mi rivolsi al Credito Italiano. Andai a parlare con Rondelli che la dirigeva. Gli dissi che volevo iniziare acquistando Avantgarde, un marchio americano che sarebbe stato il cavallo di Troia, ma non avevo i soldi. Presentai il progetto, il business plan, il programma, i rischi. Dieci giorni dopo mi convocò alla banca. Accettò. Mi presentai in Usa che mi ridevano in faccia. Dissero la cifra. Tirai fuori il libretto di assegni e firmai senza neppure chiedere lo sconto di un dollaro. Due ore dopo, l’amministratore delegato di Avantgarde mi confessò al bar penso di aver commesso il più grande errore professionale della mia vita e si ritirò dagli affari. Un anno dopo avevo restituito alla banca tutto il capitale con gli interessi composti, avevo aperto quattro nuovi stabilimenti e assunto 4.500 persone. Questo deve fare una banca. O in Italia lo capiscono e si danno una smossa, oppure si rimane alle chiacchiere e si affonda”.
Del Vecchio spera e auspica che Monti intervenga molto presto nel settore che lui (e Corrado Passera) conoscono molto ma molto bene: banche e finanza italiane. E propone di far applicare un codice ferreo di regolamentazione comportamentale che imponga a tutti gli amministratori delegati di banche, fondazioni e aziende, di riferire come usano i soldi.
“Alle Generali l’amministratore delegato poteva disporre investimenti fino a 300 milioni di euro senza comunicare niente a nessuno. Lo stesso a Unicredit, Intesa SanPaolo, Mps. La verità è che nessuno sa dove vanno a finire quei soldi, dove siano andati a finire i soldi. La mia azienda alla fine dell’anno si ritrova circa 700 milioni di euro da investire. Andrea Guerra che è il mio amministratore ogni volta che deve spendere cifre superiori a 1 milione di euro, informa ogni singolo membro del consiglio e manda copia a ogni importante azionista. Pretende di avere delle risposte e pretende che si discuta del suo investimento perché vuole sapere l’opinione di tutti, compreso il collegio sindacale interno e il rappresentante sindacale dei lavoratori dipendenti. Perché l’azienda è anche loro. Il loro posto dipende dalle scelte di chi dirige. Ogni decisione presa viene valutata collettivamente. Se si rischia, lo sanno tutti, l’hanno accettato. Non esistono mai sorprese. Questa è la strada. Non ne esistono altre. O si fa così, o si chiude tutti quanti, baracca e burattini”.
Perché la classe politica italiana non si fa carico delle gravissime preoccupazioni di imprenditori come Del Vecchio e non interviene in proposito?
Non stanno lì in parlamento ad appoggiare un gruppo di professori nel nome delle imprese e della ripresa economica? Se non ascoltano i leader che producono, che senso ha? Dov’è il Senso?
Ho pensato che potesse essere interessante una voce insolita, diversa dai precari, dai disoccupati, dai licenziati, che vivono ogni giorno la propria tragedia esistenziale. Il nemico non sono le imprese. Il vero nemico è la sordità di governanti e politici che non ascoltano chi produce e conosce la verità del mercato.
Quello è il vero nemico.
Quella sordità è l’anti-politica. Che cosa c’entra Beppe Grillo?


Tratto da: Il più grande imprenditore italiano attacca le banche e ne denuncia la speculazione. | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2012/04/30/il-piu-grande-imprenditore-italiano-attacca-le-banche-e-ne-denuncia-la-speculazione/#ixzz2PIxDYm9Z
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!