La caduta di Casa Ligresti. E La Russa. E Santanchè
Maurizio Blondet18 Luglio 2013
Per qualche motivo a noi ignoto, i media non ritengono opportuno associare la parola «Ligresti» alla parola «Mafia». E non lo faremo nemmeno noi. Ci limitiamo a rallegrarci dell’arresto dell’intera famiglia, che a quanto pare stava per filarsela avendo svuotato un suo conto lussemburghese di 14 milioni: è un sollievo per tutta Milano, la fine di «un tumore» (come dice Staiti di Cuddia).Ci limitiamo a sottolineare lo stile di Salvatore Ligresti come «imprenditore e capitalista» italiota. Uno stile, se possiamo osare, prettamente siculo. Nel senso che, accaparratisi delle società assicurative serie e solide, quotate in Borsa, la Famiglia le ha trattate come «cosa nostra»: ossia non appartenente anche agli azionisti e risparmiatori minori, ma solo sua. E come le ha trattate? Semplicemente spogliandole, saccheggiandole fino all’osso. A danno degli altri azionisti (e chi se ne frega, come dicono a Paternò), ma alla fin fine a danno di loro stessi, perché con quale progetto hanno saccheggiato? Nessun progetto.
È questo il tipo di capitalismo italico di cui i Ligresti sono esponenti eccezionalmente vistosi, ma non unici. Mai si ricorda di loro una bella operazione, un giusto e sagace investimento che abbia prodotto reddito, un colpo imprenditoriale indovinato. Reddito e ricchezza, l’hanno puramente e semplicemente distrutta, al solo scopo di pagarsi loro, i loro lussi e i loro piaceri sfondati. Senza nemmeno sentire il bisogno di usare il cervello.
È «la politica manageriale che ha portato al graduale depauperamento della società Fondiaria Sai» di cui parlano gli inquirenti, «la distruzione del valore delle azioni acquistate da migliaia di risparmiatori». Durante il saccheggio, i famigliari si sono ben retribuiti: nel triennio 2008-2010, Jonella Ligresti ha percepito – si legge – compensi per 9 milioni, Giulia Ligresti per 3,4 milioni, Antonio Talarico per 8 milioni, Fausto Marchionni per 15 milioni, Gioacchino Paolo Ligresti per 10 milioni, Emanuele Erbetta per 2.8 milioni. Secondo il gip «le società a monte della catena partecipativa di Fondiaria-Sai sono nel complesso delle scatole vuote, non in grado di produrre alcuna risorsa patrimoniale».
Tipica, l’operazione Atahotel. La catena alberghiera appartenente ai Ligresti, è in perdita. Appena si accaparrano il gruppo assicurativo Fonsai, i Ligresti gli vendono Atahotel, liberandosi di perdite per 52 milioni, a facendosi pagare per giunta, per il catorcio, 25 milioni. Un prezzo assurdo: ma giustificato dalla dichiarazione che gli immobili Atahotels erano affittati a caro prezzo. Solo che, appena in mano a Fonsai (poi a Fondiaria), Atahotel ottiene sconti su questi affitti, che erano serviti a gonfiare il valore della società. Una truffa agli azionisti? Chissenefrega, dicono a Paternò: pensiemo ai figghi nostri. Con Ligresti che vende sempre a Ligresti in perdita, ma ben compensato per le sue consulenze sempre s’intende dalle società di famiglia che sta saccheggiando.
Perché i profitti di Salvaore Ligresti, il capostipite, mica venivano da buoni investimenti, da impieghi redditizi del capitali disponibile (e preso in prestito, o affidato dagli altri azionisti). Macché: lui si è scremato per anni dei soldi dalle società che erano sue come non fossero sue, trattandole come una preda. Secondo gli inquirenti, tra il 2003 e il 2011 FonSai, Milano e Immobiliare Lombarda hanno pagato l’ingegnere perché prestasse consulenza «in operazioni che le società avrebbero poi posto in essere relazionandosi con società riferibili a Ligresti stesso». Per questo FonSai gli ha versato 3,5 milioni di euro all'anno, Milano 1,5 milioni e Immobiliare Lombarda 250 mila euro. In aggiunta, il cda di Fondiaria nel 2007 gli ha riconosciuto un una tantum di 3,5 milioni per «l'impegno profuso» e Milano nello stesso anno e per le stesse ragioni 3 milioni. In tutto ha incassato qualcosa come 42,2 milioni. Percepiti per aver venduto al gruppo FonSai immobili di sua proprietà» (Il Sole24 Ore).
Capito? Ligresti si faceva pagare come «consulente» di società di cui era presidente o amministratore delegato, o consigliere d’amministrazione. E così viveva. E alla grande.
Niente, nessuna intelligenza da capitalista, non un barlume di acutezza imprenditoriale è mai apparso nella Famiglia Ligresti. Nessuna strategia, nessun progetto. Solo spreco e dissipazione senza cervello.
Una abilità però, don Salvatore ce l’ha: le relazioni. Le amicizie incredibili che lo coprono «politicamente» e le relazioni che gli procurano il denaro altrui. Nientemeno che Mediobanca gli ha dato, per le operazioni distruttive come quelle descritte sopra, più di un miliardo. Mediobanca, il salotto buono, schifiltosissimo quando si tratta di finanziare imprenditori veri, molto «choosy» su chi far entrare e chi no al suo cospetto, si fida di questo tizio, con quella faccia di Paternò. Soldi che poteva dare alle imprese che esportano, e che sono in difficoltà per il credito ristretto, la banca d’affari li dà ai Ligresti. Per anni. Assistendo allo spreco sterile e scemo senza fare una piega.
Un creditore così benevolo, gli imprenditori veri se lo sognano. Una banca così generosa nei fidi, mai s’è vista per le persone serie. Per i Ligresti sì. Tanti riguardi. Al punto che l’amministratore delegato di Mediobanca Nagel, quando infine deve espellere i Ligresti e accollarsi la loro finanziaria Premafin (che Mediobanca ha pagato molte volte il suo valore, sprecando l’investimento), ancora fa con loro un patto segreto, in cui come buonuscita e compenso finale per il disastro, accetta di dargli 45 milioni ed altri benefit. Il tutto contenuto in una letterina, in un «papello» come dicono a Paternò, che non doveva essere conosciuto da terzi, ma è stato scoperto.
Interessanti e molto istruttive le richieste dei Ligresti come appaiono sulpapello: oltre ai 45 milioni di buonuscita, Salvatore vuole (e Mediobanca gli dà): un posto per il figlio Paolo in Fondiaria (in Svizzera, per precauzione). Una buonuscita per le figliole, l’autista e la segretaria per papà. Le vacanze pagate per tutti, l’iscrizione perpetua ad un ricco golf club, più la tenuta Cesarina, un ricco predio agrituristico cui «don Salvatore tiene più che a ogni altra cosa».
Molto istruttivo come vedete: i Ligresti volevano continuare a fare la vita dei ricchi capitalisti, senza più esserlo. Era questo il loro programma, non ne avevano altro. L’apparenza senza sostanza. Il mangiare senza lavorare. In questo tipo di cose hanno avuto tanti successi.
Come con l’ISVAP, l’Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni Private, l’ente pubblico che doveva controllare le assicurazioni, ed ha assistito senza fare una piega «allo scempio che la gestione Ligresti stava compiendo del patrimonio di quella che era la seconda compagnia d’assicurazioni italiana». Qui il perché è meno misterioso: il presidente dell’Isvap Giancarlo Giannini (uno di quei grand commisimmarcescibili che noi contribuenti paghiamo tanto profumatamente perché facciano da «authority»: nel caso, con 281 mila euro annui) era amicone di Ligresti. Che gli era largo di favori: un bell’appartamento di proprietà Ligresti a Roma per il figlio, una raccomandazione – così accusano gli inquirenti – che Giannini avrebbe chiesto a Ligresti, consistente nel procurargli un posto per quando, di lì a poco, sarebbe scaduto il suo mandato all’Isvap, e di procurarglielo convincendo il suo amico Silvio Berlusconi. Oggi non solo Giannini è incriminato per corruzione e calunnia; ma persino l’Isvap è stato trascinato nella rovina, è stato abolito e le sue funzioni prese da Bankitalia (adesso siamo tranquilli che vigilano...).
Perché le entrature politiche di Ligresti erano leggendarie, con l’altra «famiglia di Paternò» fortissima a Milano: i noti La Russa. Era stato il capostipite, senatore Antonino La Russa, a introdurre il giovaneLigresti nientemeno che presso l’inarrivabile Enrico Cuccia, il laicissimo ed algido patron di MedioBanca, siculo del resto come loro (il richiamo della foresta?). Da allora le due famiglie sono state intrecciate in tutte le imprese. Secondo Staiti di Cuddia, persino «la decisione di far diventare Gianfranco Fini segretario fu presa a Taormina in un albergo di Salvatore Ligresti, presenti il senatoreAntonino La Russa, suo figlio Ignazio, Giorgio Almirante ePinuccio Tatarella. Quando poi i figli adottivi di Almirante fallirono con la concessionaria di auto Lancia a Roma, furono salvati da Ligresti, che diede loro un’agenzia della Sai. Il male affonda lì».
Quando l’MSI, per uno scherzo insperabile della sorte, diventa un partito di governo sdoganato da Berlusconi, i La Russa salgono nel firmamento della greppia pubblica, e ne approfittano. Oh se ne approfittano. Ignazio ministro della Difesa; il fratello Romano, che prima lavorava in un negozio della Richard Ginori (altra società comprata e rovinata dai Ligresti) diventa europarlamentare, poi coordinatore provinciale del Pdl e assessore regionale.
La Russa distribuisce posti pubblici, che sono scambi di favori, a siculi collegati con le due Famiglie. Per esempio eleva un tal Giovanni Catanzaro, di Caltanissetta , un dipendente di Ligresti, prima della Richard Ginori e poi della Sai, a «Lombardia Informatica»: la grassa società della Regione Lombardia di Formigoni che gestisce l’informatizzazione della Regione più ricca d’Italia, gestendo un bel po’ di milioni per acquisti di computer eccetera. E che fa questo Catanzaro per ricambiare il favore? Fa trasferire il «call center» della Sanità della Regione Lombardia – tenetevi forte – a Paternò: 189 operatori assunti sul posto, che devono alle Due Famiglie eterna riconoscenza.
Filippo Milone
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In tutti questi decenni, il senatore Antonino La Russa è alla testa di tutti i gruppi appartenuti a Ligresti e da lui via via rovinati: vicepresidente della Sai, vicepresidente della ATA Hotels S.p.A., vicepresidente della finanziaria Richard Ginori S.p.A., e infine vicepresidente della Premafin, la holding finanziaria dei Ligresti oggi in bancarotta.
E la pacchia doveva continuare: alla morte del capostipite Antonino, è il nipote Geronimo (figlio di Ignazio) a ereditare la poltrona del nonno nel cda della Premafin, alla quale aggiungerà quella nel cda dell’Aci. A 25 anni, Geronimo è già un arrivato, tanto più se si considera che si è andato a laureare a Catania, così è stato più sicuro di riuscire. E ovviamente, il seggio in Premafin dà al bel giovine di successo altri seggi, con relativi gettoni di presenza, in società di Ligresti: è anche nel cda di Finadin, in Immobiliare Lombarda e nella International Strategy srl. Tutti incarichi per cui il vecchio amico del nonno ha versato a Geronimo la bellezza di 376 mila euro annui, finché è durata.
Santanchè e La Russa
Ma, infaticabile, dinamicissimo imprenditore (del tipo siculo-lombardo), Geronimo La Russa trova il tempo e le forze anche per affari più propriamente suoi: da marzo 2010 è socio unico della società immobiliare Metropol srl cui risultano intestati uffici, rimesse e negozi nel centro di Riccione, e socio accomandatario della immobiliare di famiglia, Interiblea (che custodisce anche la residenza milanese di papà Ignazio). È inoltre un fondatore di «Milano Young», una Onlus (eh sì) che dovrebbe svolgere iniziative benefiche e in cui il giovin signore siede a fianco di Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Mauro Pagani, Micol Sabbadini, Francesca Versace e Giulia Zoppas. Dimenticavo: è pure vicepresidente dell’Aci, l’Automobil Club Italiano, ente inutile che paghiamo tutti perché si è accaparrato il PRA, pubblico registro delle automobili.
Ma soprattutto, Geronimo è noto come gran frequentatore di discoteche, estati in yacht, corse in auto di lusso e notti brave fra riccozzi e olgettine e veline tv, tutta la zoologia che alimenta quel che i rotocalchi specializzati chiamano «il gossip» fra i «VIP». Tutto suo padre, si potrebbe dire. O anche: ad ogni politico il suo Trota. . Quando il Trotino di Paternò s’è sposato con una Patrizia, al matrimonio si sono fatte vedere Mara Carfagna (allora ministra delle impari opportunità), Barbara Berlusconi, e Daniela Santanchè. La giovane coppia è andata ad abitare, narrano le cronache mondane, «in un attico agli ultimi piani della Torre Velasca, lo storico grattacielo di Milano con vista sul Duomo di proprietà del gruppo di Ligresti, che è diventato così il suo padrone di casa».
Geronimo La Russa, Barbara Berluscono e Ligresti figlio
Già, anche la Santanchè è nel giro di Famiglia. Secondo il solito Staiti di Cuddia, «Ignazio avrebbe anche fatto un patto “politico-commercial-mondano” con Daniela Santanchè: lui le aprì le porte della Provincia, lei quelle dei salotti, da quelli di Cortina e della Sardegna a quelli televisivi». Così inizia quella che Staiti definisce (lascio a lui la responsabilità) «la politica dell’sms, soldi, mignotte, salotti tv». Quella che ben conosciamo e di cui costoro sono tanta parte...
… O lo sono stati, perché ora spero che il crollo della lurida Casa Ligresti trascini con sé anche i La Russa, anche la Santanchè con il suo appartamento di 900 metri quadri, tutta questa brutta gente che a Milano si è impadronita del nome della «Destra» e l’ha sporcato. Lo spero per Sergio Ramelli, sprangato nel ’75 uscendo da scuola perché aveva scritto un tema «di destra»; per Enrico Pedenovi, consigliere provinciale del MSI, assassinato a colpi di pistola un anno dopo a Milano perché credevano a quella Destra, lo spero per le altre decine di sprangati e mutilati, di incarcerati ingiustamente, di costretti alla latitanza, di rovinati nella vita e nel futuro; per Mazzola e Giralucci trucidati a Padova dalle BR. Almeno per ricordo di queste vittime, quella brutta gente avrebbe dovuto aver qualche decenza. Hanno sgavazzato e goduto sulle ossa di quelli che ci hanno creduto. Ora spero tocchi a loro, almeno, di non sgavazzare più.
P.S. – Per i non-milanesi, una nota: quando si parla di «poteri forti» in Italia, non occorre pensare a Goldman Sachs e Morgan Stanley. Sono già «poteri forti» inamovibili e impuniti per decenni i Ligresti e La Russa, figuratevi a che punto siamo ridotti...
P.P.S. – Secondo me anche Silvio, nel cui nome tutta la politica mignotte e tv è stata consumata, farebbe bene a filarsela ad Antigua. Non capisco cosa aspetta. Il «senatore» De Gregorio ha già ammesso di essere stato da lui pagato (3 milioni) per cambiare partito, passando da Di Pietro al Pdl. Al processo Ruby, i giudici hanno incriminato i 32 testimoni a suo favore – quelli che hanno giurato che sì, lui credeva che Ruby fosse davvero la nipote di Mubarak, e ne aveva anche parlato col dittatore egiziano. Ora, tutti costoro sono o stipendiati da Berlusconi, o gli devono seggi parlamentari: è chiaro che i giudici ne hanno le scatole piene di queste false testimonianze. Non si tratta più di prostituzione con una minorenne, ma di qualcosa di più grave: in Usa come in Gran Bretagna, si direbbe «disprezzo della Corte». Un cosa è per un imputato difendersi anche con mezzucci; ma se l’imputato cerca palesemente di far fessi i giudici, in un modo così plateale, allora la Corte ha ragione di incavolarsi. Voi sapete che giudizio dò della Boccassini e dei giudici milanesi; ma stavolta hanno ragione. E fra poche settimane cominceranno ad interrogare questi «testimoni» in veste di imputati, e allora ne vedremo delle belle: quelli se la faranno sotto, e tradiranno il loro capo, il loro Al Capone. Perché non si sbriga a filarsela? Vuol finire come Ligresti, che si è deciso in ritardo? Cos’è, arroganza? O idiozia?
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